LA RIVISTA E LA RICERCA SOCIOLOGICA
di Eide Spedicato Iengo (docente di Sociologia Generale presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti)
Cara Rivista Abruzzese, non sono in grado di quantificare il peso e la misura, in cinquant’anni della tua vita, dell’attenzione che hai mostrato nei confronti del genere sociologico, né di stendere diagnosi sulla produzione degli studi che hai ospitato in questo settore. Tuttavia, attraverso un bilancio di occasionali campioni, posso dire che, con la ricerca sociologica, sei stata generosa e disponibile. Hai dato spazio alle analisi sul quotidiano e documentato intorno ai disagi, alle tensioni, agli annaspamenti della società dell’oggi. Per esempio, hai indotto a riflettere sul dissenso del linguaggio della droga, sull’ansia insoddisfatta di valori di chi è giovane e, per contrappunto, sul mal di vivere di chi è vecchio. Ma, nella compagine di queste esperienze ansiogene e talora antivitali, hai anche indicato gli ingredienti utili alle direzioni costruttive e ai rapporti rassicuranti. Nel discorrere di coefficienti di integrazione sociale, hai discusso inevitabilmente della famiglia o, meglio, delle tipologie familiari; dei modelli educativi; della frattura intellettuale e morale fra le classi di età e, parallelamente, delle riappropriazioni affettive, della fraternizzazione fra genitori e figli, e di padri e madri “di ritorno”.
Nella tua analisi delle metamorfosi sociali hai dato voce alla crisi delle logiche unitarie e all’insufficienza dell’individuo illuministico; precisato la difficoltà delle previsioni sociali; sollecitato l’attenzione sulle turbolenze dell’attualità; criticato il presentismo smemorato e smemorante; investigato sulle rappresentazioni della coscienza collettiva e sulle materie della vita sociale. Di qui, fra l’altro, la tua attenzione alla complessità, alla pluralità, all’ambivalenza della secolarizzazione (uno dei concetti più inquieti della sociologia della religione degli anni ’70), e alla sua interfaccia (la dimensione della credenza). Ovviamente, in questo spazio interpretativo, hai indugiato sul sacro. Hai lasciato che su esso occhieggiasse il pensiero di Durkheim e fibrillasse il corteo variopinto e misterioso di simboli, immagini, culti, rituali, devozioni, santità dell’inconfondibile vocabolario del mondo popolare. Così hai penetrato il sistema organizzato e circolare dell’homo sapiens (non dell’homo credulus) che rispecchia una vita scandita da atti iterati, costanti e significativi che affiancano i discendenti agli antenati nell’eterno gioco della vita-morte-rinascita. Nelle tue escursioni in questo cosmo cangiante e sonoro hai impattato inevitabilmente la problematicità dell’azione umana. Perciò hai ospitato interventi sulle reti delle relazioni sociali, sui sociogrammi delle interazioni spontanee, sui gradi della socialità. Hai discusso di gruppi primari e di gruppi secondari, di individualismo e di società di massa, di integrazione e di anomia, di individualizzazione e di spersonalizzazione, di disagio e di benessere. Di tutto ciò hai tratteggiato un quadro contrastante, incerto, non esemplificabile, labirintico in cui hanno trovato posto anche riflessioni sul significato della salute e della malattia, sulla segnaletica dello stress (proposto nelle tue pagine come chiave di ricomposizione fra il “dentro” e il “fuori” dell’individuo o, meglio, come suggerimento di collaboratività del soggetto col suo ambiente), sulla rimeditazione critica della medicina e sulla socializzazione professionale della corporazione medica.
La tua attenzione alla fenomenologia sociale ha incontrato, e non avrebbe potuto essere altrimenti, anche il mondo delle donne. E, infatti, puntualmente, hai lasciato che si di-scutesse di femminismo e di antifemminismo, di destino di genere e di emancipazione, di sguardi maschili e di ma-schere femminili, di figure periferiche e di “regno delle ma-dri”. Parimenti, in questa tua lettura senza calligrafismi dell’esperienza, non potevano mancare contributi sul fronte degli “altrove” culturali, sulla dimensione delle minoranze, sullo scenario delle identità sociali ne-glette dall’imperialismo culturale sbrigativo e villano dell’oggi. In tale ambito di ricerca, il silenzio si è tradotto in linguaggio e situazioni destinate alla taciturnità hanno restituito suoni e voci ad innumeri universi caleidoscopici e vitali, densi di indizi e messaggi altrimenti senza interpreti. Questa tua attenzione al “c’era una volta” non ti ha tuttavia sottratto all’analisi della modernizzazione. Di qui le tue pagine sulla filosofia dello sviluppo e sulla realtà del sottosviluppo, sull’urbanizzazione e sulle vocazioni regionali, sullo spazio delle risorse e sugli indicatori di squilibrio, sui comparti economici e sulle scelte politiche. In questo inventario di proposte, hai lasciato ampi margini al tema della mobilità delle genti d’Abruzzo: hai documentato il piano dei bisogni e delle aspirazioni che inducevano a partire; proposto cifre e vissuti intorno a situazioni segnate di speranze e di delusioni; disegnato il cartogramma delle aree di espulsione e di quelle di ricetto; ruotato intorno al mito della Mérica; raccontato la storia di tanti piccoli/grandi uomini che andavano e tornavano dall’annallà con temeraria disinvoltura, fra gente spiccia e di parlata varia con la stessa naturalezza con la quale raggiungevano l’orto dietro casa. Hai parlato, infine, del mondo in effigie che entra nelle nostre case, attraverso l’invadente e ciarliero totem della televisione; approfondito il dialogo implicito e sotterraneo che lega il mittente al destinatario; ripercorso le costruzioni della realtà che questa interazione produce.
Ma, come dicevo ad apertura di questa lettera, quanto qui ho scritto non è un bilancio degli studi di sociologia che nel tempo le tue pagine hanno proposto: quelle qui accennate sono solo alcune tracce di filoni di ricerca assai più ampi. Non me ne vogliano, pertanto, gli studiosi che non dovessero riconoscersi in questa mia breve nota. Chiudendo, ho l’obbligo di dichiarare che personalmente ti sono molto grata, sia per l’ospitalità che hai sempre accordato alle mie riflessioni, sia per l’attenzione che a loro hai sempre riservato, sia per l’insofferenza che hai sempre espresso vuoi per le proposte boriose e artificiose, vuoi per le scorciatoie comode e narcisistiche, vuoi per i facilismi banali e corruttori, vuoi per gli arrivismi impudichi e volgari. Grazie, perciò anche per questo tuo modo di essere, per questa tua voglia di colloquiare senza infingimenti, per questo tuo piacere della ricerca, per questo tuo pensare in proprio senza timore di sporgere dalla fila.