Sul n. 4 del 2019, Maria Rosaria La Morgia ha intervistato Vito Teti, professore di Antropologia culturale dell’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo. Tra le sue pubblicazioni: Il senso dei luoghi (Donzelli, 2004; III ed. 2014); Storia del peperoncino (Donzelli, 2007); La razza maledetta (Manifestolibri, 2011); Maledetto Sud (Einaudi, 2013); Pietre di pane (Quodlibet, 2014); Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale (Rubbettino, 2015); Fine pasto. Il cibo che verrà (Einaudi, 2015); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni (Donzelli, 2017); Il vampiro e la melanconia (Donzelli, 2018).
M. R. L. M.: C’è un’Italia che sta sparendo, è quella dei piccoli paesi delle aree interne sparsi da Nord a Sud. Ce ne sono alcuni che contano poche decine di abitanti, anche meno. Paesi fantasma dove è sempre più difficile sentire voci per strada, rumori di vita, incontrare bambini e giovani. Case con porte e finestre sbarrate che faticano ad aprirsi anche d’estate. Il cuore dell’Italia che ha un battito sempre più lento e affaticato. Quando se ne parla, lo si fa utilizzando i registri della nostalgia del passato e della retorica, tralasciando di fare i conti con la complessità del presente e la necessità di futuro. Sono temi che ti stanno a cuore, che hai approfondito in diversi libri, penso a Quel che resta: l’Italia dei paesi tra abbandoni e ritorni (Donzelli Editore, 2017), a Pietre di pane – un’antropologia del restare (Quodlibet, 2011). Saggi densi di riflessioni come i tanti articoli che continui a dedicare all’abbandono, al partire e al restare. E di questo vorrei chiederti. C’ è un termine ricco di suggestioni che usi: “restanza”. Che cosa significa?
La situazione dei paesi interni, ma anche di centri urbani e costieri, è quella che delinei tu, con efficacia, nella domanda. Nella scelta o nella “necessità” di “restare” ho visto un possibile, non sufficiente, “antidoto” a uno “svuotamento” dei luoghi, un fenomeno che ha origini remote e recenti e cause diverse (emigrazione, catastrofi, fuga verso le città, crisi delle aree interne, grande emergenza demografica, ecc.). Nessun abitante, nessuna casa. Nessuna casa, nessun paese. Questo viene ricordato da tanti modi di dire diffusi nelle lingue e nei dialetti del Sud e dell’intera Italia. Ho adoperato il termine “restanza” anche con riferimento dialettico e, forse, musicale e letterario, ad erranza, lontananza, dimenticanza, vicinanza. In altri termini “restanza” è un’azione, una pratica, che richiede consapevolezza, “mobilità”: un termine che contiene l’idea di una necessaria dinamicità, inquietudine, disponibilità a camminare e a viaggiare anche da fermi. Restare non è, come potrebbe apparire, l’antitesi del viaggiare, del mettersi in discussione, della disponibilità al disordine, alla scoperta, all’incontro. La “restanza” non è separabile dall’esperienza dell’esodo e del migrare. Le due esperienze vanno comprese assieme. Partire o restare è il dilemma che appartiene alla storia dell’umanità fin dall’antichità e, nel nostro caso, ai luoghi che hanno conosciuto calamità, terremoti, frane, spostamenti, movimenti emigratori. Insomma, la stanzialità e la fuga sono due volti dello stesso fenomeno. Accanto al diritto di migrare, di spostarsi, quasi sempre per costrizione (fame, emergenze climatiche, guerre), si può e si deve rivendicare il diritto complementare di poter restare e di sopravvivere con dignità nel territorio dove si è nati, comunque si configuri la propria “identità”.
M. R. L. M.: Restare, quindi, non significa stare fermi, immobili e chiusi nel conservare un passato che non c’è più. C’è qualcosa di diverso nella lettura che tu proponi del restare, qualcosa che mette in crisi la retorica sulle identità locali?
Esattamente. Nessun immobilismo, nessun elogio dell’immobilismo o della chiusura. Restare, in un mondo di falsi movimenti, può diventare una forma di viaggio estremo. I “tristi tropici” di cui parlava Lévi-Strauss integrano oggi i nostri luoghi domestici. Restare significa fare mente locale, ma anche disponibilità allo stupore. Non pensare di ripristinare il passato così com’è, non immaginare improbabili restaurazioni. Significa anche non pensare a identità statiche, ad eredità gratuite. Restare comporta quindi riconoscere l’alterità in noi, quell’alterità che un tempo etnografi e antropologi cercavano nelle popolazioni “primitive”, selvagge. Restare allora non ha che fare con la conservazione, ma richiede la capacità di mettere in relazione passato e presente, di riscattare vie smarrite e abitabili, scartate dalla modernità, e di renderle di nuovo vive e attuali. Quello che ieri era arretratezza oggi potrebbe non esserlo più. La montagna improduttiva e abbandonata oggi offre nuove possibilità, nuove risorse, nuove forme di vita. Per mille ragioni anche il restare – ed il restare di chi ha viaggiato o di chi torna – condivide la fatica, la tensione, la nostalgia dell’errare. Restare non significa soltanto contare le macerie, accompagnare i defunti, custodire e consegnare ricordi e memorie, raccogliere e affidare ad altri nomi, soprannomi, episodi di mondi scomparsi o che stanno morendo. Restare significa mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire qui ed ora un mondo nuovo, anche a partire dalle rovine del vecchio. Sono i rimasti a dovere custodire memorie, a osservare rovine, a dovere intrattenere un diverso rapporto con i luoghi. Sono i rimasti a dover dare senso alle trasformazioni, a porsi il problema di riguardare i luoghi, di proteggerli, di abitarli, viverli, renderli vivibili. Coloro che sono rimasti si riconoscono anche nei ruderi del passato e nelle rovine della contemporaneità e con la loro nostalgia giungono quasi a mettere in atto strategie di risarcimento nei confronti dei paesi abbandonati. I ruderi e le rovine sono reliquie di corpi spezzati, separati, divisi, frammentati. I ruderi stabiliscono collegamenti tra coloro che sono rimasti e coloro che sono partiti. I “rimasti” fanno scrivere il loro nome in luoghi che non hanno mai conosciuto. I “partiti” mettono il loro nome su una tomba in un paese dove non saranno mai sepolti. In tal modo penseranno di esserci, di essere rimasti, di vivere perché qualcuno passa e guarda la fotografia, dice una preghiera. È questo sentirsi dislocati, fuori luogo e nel luogo a un tempo, deterritorializzati, anche da defunti, che ci fa capire meglio il sentimento dei luoghi. Il villaggio e la comunità da raggiungere non stanno indietro nel tempo, ma vanno raggiunti qui e ora, costruiti giorno per giorno. Anche con scarti, schegge, frammenti – nei margini, nelle periferie – del passato (riconosciuto e risarcito) in un luogo così vicino e così lontano. Restare significa raccogliere i cocci, ricomporli, ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità. E ancora volontà di guardare dentro e fuori di sé, per scorgere le bellezze, ma anche le ombre, il buio, le devastazioni, le rovine e le macerie. Anche gli errori, le indifferenze, le apatie del presente. Onde di nostalgie, di rimpianti, di risentimenti attraversano le pietre, le rocce, le grotte, i ruderi, le erbe che nascondono o proteggono le rovine, le piante di fico che accompagnano e provocano la caduta delle abitazioni. Molte persone vivono ancora tenacemente nei paesi che si vanno giorno per giorno spopolando, e sognano una rinascita, una nuova vita per la propria comunità. Le feste che si svolgono nei paesi abbandonati e diroccati svelano questi sottili e controversi legami con i ruderi. Restare comporta, per chi lo fa con consapevolezza, un’attitudine all’inquietudine e all’interrogazione. In un mondo in cui il viaggio avviene attraverso la rete e, almeno in apparenza, tutti i luoghi sono uguali, ugualmente accessibili, un vero e sofferto “spaesamento” appare quello di chi resta “fermo” e “fedele” al luogo di appartenenza, quello di colui che vuole riconoscere e insieme cambiare l’antico. Esiste, infatti, anche lo sradicamento totale di colui che resta fermo in posti che cambiano, di chi si sente straniero nel posto in cui vive. Restare significa cercare, aspettare, incontrare l’altro che oggi viene da noi. Solo chi ha memoria delle antiche pratiche dell’ospitalità (da non enfatizzare e da non ridurre a retorica) può essere disponibile ad accogliere i nuovi erranti insieme ai quali costruire un “nuovo mondo”, in luoghi che hanno avuto un senso e che debbono essere attraversati da nuovi sentimenti. Perché restanza denota non un pigro e inconsapevole stare fermi, un attendere muti e rassegnati. Indica, al contrario, un movimento, una tensione, un’attenzione. Richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione. Un sentirsi in viaggio camminando, una ricerca continua del proprio luogo, sempre in atteggiamento di attesa: sempre pronti allo spaesamento, disponibili al cambiamento e alla condivisione dei luoghi che ci sono affidati. Un avvertirsi, appunto, in esilio e stranieri nel luogo in cui si vive e che diventa il sito dove compiere, con gli altri, con i rimasti, con chi torna, con chi arriva, piccole utopie quotidiane di cambiamento. Disponibili anche allo scacco, all’insuccesso, al fallimento, al dolore.
M. R. L. M.: Negli ultimi anni in tanti invocano un ritorno al passato, un mondo meno globalizzato. C’è nostalgia del “piccolo è bello” e cresce il richiamo alle tradizioni interpretate come segno di un’identità forte e autosufficiente. Si alzano muri, metaforici, mentre crollano i ponti?
Verissimo. Uno dei motivi dei miei lavori è che non è possibile mai “tornare” al punto di partenza, alla “patria perduta”. “Non si torna”, come in un certo senso “non si resta”. Contro l’immagine della nostalgia come rimpianto delle piccole patrie, di un mondo paradisiaco perduto, come “retrotopia” (cito Bauman) che inventa un buon tempo antico mai esistito, bisogna affermare un’altra concezione della nostalgia (presente ad esempio in una tradizione che va da Baudelaire a Roth, da Alvaro a Pasolini) come critica del presente, come strategia per affermare una presenza in un mondo dominato dall’ossessione di un presente perenne e incapace di immaginare il futuro. Occorre una “nostalgia attiva”, che sappia custodire memorie del mondo passato, ma non si accontenta dello status quo, delle devastazioni in atto, ed è capace di “guardare avanti”, di inventare qualcosa di nuovo, un altrove abitabile e possibile. Più conosciamo la nostra storia, più abbiamo memoria di noi stessi e meglio comprendiamo che anche la nostra è un’identità (termine ambiguo e controverso) mobile, aperta, esito di arrivi, partenze, ritorni, mescolanze. Le idee e anche le persone viaggiano e l’homo sapiens si è spostato anche in presenza di muri, muraglie, montagne inaccessibili, oceani e foreste sconfinate. Nessuna barriera e nessun muro potrà fermare processi in atto con i quali è bene, invece, fare i conti, con consapevolezza, senso di responsabilità, creando legami e ponti, conservando la nostra umanità, senza paure inventate, senza cedere a retoriche e a linguaggi violenti, disumani.
M. R. L. M.: Le macerie della crisi economica e quelle dei terremoti si sono sommate distruggendo la speranza e generando paura. Un ammasso informe che rende difficile la ricostruzione, molto più difficile di quella del dopoguerra. Sembra che la speranza di futuro sia morta e con lei la capacità di mettersi in gioco, di assumersi la responsabilità del fare e del dire?
Resto sgomento, oggi, nel leggere che sui social, dopo l’annegamento di centinaia di persone nel Mediterraneo, sono in molti a dire ai pesci: buon appetito. Passa la voglia di parlare, di scrivere, di fare. Eppure è in questi momenti che forse dobbiamo affermare i valori positivi della nostra civiltà che (accanto a tanta barbarie) ha saputo parlare di fratellanza, pietà, misericordia, accoglienza, rispetto della vita, amore per il prossimo. Prima di tutto “restare” persone con una umanità che ti porta a salvare altre vite umane, poi si può discutere come affrontare e gestire un fenomeno che crea paure e insicurezze, anche comprensibili, ma che non può essere cancellato nemmeno con parole rozze, orribili, terribili che potrebbero portare verso nuovi eccidi, verso nuovi Lager, verso la fine dell’umano e la fine del pianeta. Dalla crisi economica e dalle catastrofi in atto non si esce con la paura, pure comprensibile. Forse l’Occidente, le pance piene e obese del nostro mondo, dovrebbe prendere atto delle responsabilità che ha avuto, dopo secoli di colonialismo, per la miseria, le guerre, i mutamenti climatici che spingono milioni di persone a lasciare, perché costretti, le loro terre. Forse dovremmo pensare che non è possibile “creare muri” per fermare i grandi mutamenti climatici che oggi provocano cataclismi, temperature elevate, freddi record, scioglimento di ghiacciai anche da noi. Non so se siamo ancora in tempo, ma dovremmo fermarci, invertire senso di marcia, affermare un altro modello di “sviluppo”, avere cura dei paesi e dell’intero pianeta. Mi fa piacere il riferimento allo slancio, all’energia, alla capacità di reagire delle nostre comunità nel secondo dopoguerra. Poi, forse, abbiamo dimenticato quella fatica, il legame con la terra e dal poco siamo passati al troppo. Ma “assai è come il niente” dice un proverbio delle nostre terre e non possiamo perire anche di “assai”, di “eccessi”, di abbondanza sfrenata, di consumi inutili ed esagerati che portano alla distruzione delle acque, dei boschi, dei mari, delle montagne, della vita. Bisognerebbe riscoprire un senso “sacrale”, religioso, anche laico, dei beni, che sono di tutti e non dei pochi grandi potenti della terra.
M. R. L. M.: In questo nostro tempo si parla tanto di memoria, ma si studia sempre meno la storia, si ignora la complessità del passato, e questo rende più difficile immaginare il futuro. Prima hai citato la “retrotopia” e l’uso che ne viene fatto: forse avremmo bisogno di un po’ più di utopia, anche per ridare vita ai piccoli centri dell’entroterra?
Sono d’accordo e, in parte, ne abbiamo già accennato. Anche la memoria viene invocata in maniera retorica e strumentale e poi facciamo ben poco per custodirla in maniera viva e non mummificata. Meno abbiamo memoria e meno possiamo immaginare il futuro, vivendo in una sorta di eterno presente in cui tutto si consuma velocemente, tutto accade in un attimo e manca qualsiasi attenzione e cura per quello che avverrà dopo. Avremmo bisogno, come dici tu, di più utopia, di un pensiero utopico diverso dalle grandi e nobili Utopie del passato. Piccole “utopie” quotidiane, minuti gesti esemplari, cura per la propria casa e per la casa degli altri, creazione di nuovi luoghi di socialità e di incontro, apertura (e non chiusura) di scuole, musei, biblioteche anche nei più isolati e marginali paesi, che oggi vengono descritti come periferici, ma che domani potrebbero acquistare una nuova centralità. Ognuno di noi può fare qualcosa. Può essere determinante. Bisogna essere capaci di intercettare, di dare un senso “politico” e prospettico, a tante realtà, associazioni, gruppi, movimenti che dal basso, senza clamore, con fatica, senza il sostegno delle istituzioni e di chi governa, resistono, non si rassegnano, affermano un’altra Italia diversa da quella che ci viene consegnata dai twitter di chi governa o, per meglio dire, decide e comanda sempre guardando al proprio interesse e agli interessi di chi più ha, dei ceti sociali egoisti, potenti, ricchi, rancorosi e angusti che utilizzano il disagio e le sofferenze dei poveri, degli altri, del presunto nemico interno ed esterno, per difendere i propri privilegi. Bisogna che questa Italia che resiste, non si rassegna, non accetta le logiche e i valori dominanti si faccia sentire di più, diventi protagonista di un nuovo progetto di mutamento che guardi, davvero, agli ultimi, ai poveri, alle “schegge”, alle “reliquie”, alle memorie che costituiscono forse l’unica possibilità per salvare un mondo che sembra avviarsi verso la fine. Anche dai piccoli paesi, dai margini, dai luoghi dove molti ritornano ed operano, guardando al mondo, senza chiusure, possono partire modelli, valori, parole, linguaggi, saperi, pratiche comunitarie, produttive, sociali per salvare se stessi e il mondo intero.