Beniamino Rosati, medico umanista e filantropo
di Lia Giancristofaro
Beniamino Rosati nacque a S. Eusanio del Sangro l’8 febbraio 1881 da una famiglia colta e benestante. Nella sua formazione, ebbe un ruolo importante suo zio Filippo De Titta (parente del celebre latinista Cesare), ispettore scolastico, collaboratore dell’editrice Carabba di Lanciano, nonché insegnante di Beniamino. Lo zio Filippo conosceva personaggi come Gabriele D’Annunzio, visto in fasce, quando a sette anni aveva accompagnato il fratello del padre, don Tito De Titta, a Pescara per porgere gli auguri alla famiglia D’Annunzio. Tramite i De Titta, il giovanissimo Rosati conobbe pure Francesco Paolo Michetti e Edoardo Scarfoglio
Rimasto orfano di madre, proseguì gli studi in convitto a Roma e, dietro richiesta del padre, studiò medicina, anche se la sua vera passione risiedeva nelle arti e nella cultura umanistica. Per l’università, andò a Napoli dove conobbe, nel 1905, Benedetto Croce, col quale nacque una amicizia durata fino alla morte del filosofo. Di indole coraggiosa, partecipò volontario alla Grande Guerra, nonostante il diritto di esonero; fu ufficiale medico e pilota, stanziato a Udine, scegliendo di operare in prima linea, onde evitare i lunghi tragitti che peggioravano le condizioni dei feriti, con la conseguenza di rimanere ferito. Nella medicina d’emergenza, riusciva ad adoperare e creare tecniche nuove e personali, specie nel campo dei congelamenti: ciò gli valse la fama di “luminare del bisturi”, strumento che abbandonò solo a novantaquattro anni, tre anni prima che la morte lo cogliesse, dopo oltre settant’anni di professione alternata tra Napoli e la Valdisangro. Qui si diceva che, laddove non poteva Rosati, vuol dire che non c’era nulla da fare, e ancora vivo è, nell’immaginario collettivo, l’intervento effettuato, in un casolare di campagna, su un ragazzino, operato d’urgenza allo stomaco sul tavolo della cucina e perfettamente guarito. Lui che, per la sua bravura, avrebbe potuto selezionare i suoi pazienti per richiedere compensi altissimi, invece non aveva tariffa, affidandosi, al termine della visita, all’onesta valutazione del suo operato ed alle reali possibilità economiche di quanti aveva salvato. Nel capoluogo partenopeo, oltre alla chirurgia, esercitava la docenza universitaria, ma il suo spirito libero e la sua noncuranza verso la carriera gli impedirono di prestare giuramento al fascismo per mantenere il posto, cosa che i suoi colleghi tranquillamente fecero. Per questo, la cattedra gli fu revocata. Durante la guerra, convinse Croce a rifugiarsi a Sorrento, dove il filosofo scrisse le sue memorie sugli antifascisti esuli in Europa (Nitti, don Sturzo, Turati, Treves, Salvemini, Rosselli), e le consegnò all’amico, che, durante la resistenza, era tra i più attivi organizzatori dei partigiani della Valdisangro e manteneva i contatti tra l’Abruzzo e Napoli, già liberata. Dopo il 25 aprile 1945, Rosati fece parte della Consulta, uscendone deluso e amareggiato. Dunque, nonostante le insistenze di Croce, rifiutò di candidarsi alla Costituente per il Partito Liberale, esprimendo sempre scarso gradimento per i mestieranti della politica, che definiva attività nobile finita nel pieno della tempesta sociale e morale destinata a portare l’umanità all’estinzione. La fierezza, l’indipendenza, il senso della libertà così ammirate da Croce non risparmiavano a Rosati le espressioni satiriche, rivolte anche verso se stesso, che per lettera così si definiva, accanto all’immagine emblematica di un cactus: rude, spinoso, rustico, temprato al caldo e al gelo/ poche radici in terra, proteso verso il cielo/ pungo ma non ferisco, con spine e non con strali/ tanto da non confondermi con tanti vegetali/ scontroso, solitario ma mai genuflesso/ posso sembrar qualcuno/ ma in fondo sono un fesso. Per questo Croce riconosceva al vecchio amico, in una delle sue numerose e affettuose lettere, un eccesso “nel pessimismo, o almeno nel manifestarlo”, e lo volle intorno a sé quando, in seguito alla bronchite, si spense, il 20 novembre del 1952, sotto gli occhi del dottor Giordano, che lo aveva curato, della moglie e delle figlie Alda ed Elena.
Negli anni Cinquanta, alternandosi tra la sua minuscola abitazione del Vomero, a Napoli, e il palazzotto natale di S. Eusanio, dove viveva con la sorella e una governante, iniziò una puntuale collaborazione con la Rivista Abruzzese, che racchiuse le sue eroiche battaglie in nome dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile, quando, in pieno boom economico, l’ecologia non era di moda, soprattutto in un Abruzzo che, rimasto ai margini del processo di industrializzazione, negli anni Sessanta cercava frettolosamente di recuperare, avallando l’industria petrolchimica, la quale altrove aveva già mostrato di avere un costo ambientale e sanitario enorme, di gran lunga superiore al beneficio dei posti di lavoro e dell’effettivo apporto di energia elettrica per il Paese. Nel 1963, non appena si diffuse la notizia (peraltro salutata con entusiasmo dalla classe politica locale) che una raffineria di petrolio si sarebbe insediata nella pianura del Sangro, a meno di due chilometri dalla costa e appena a due passi dalla splendida abbazia di S. Giovanni in Venere, Rosati iniziò la sua battaglia. Dalla sua furono Alda ed Elena Croce, nonché abruzzesi illustri come Raffaele Mattioli, Ignazio Silone, Federico Spoltore e Corrado Marciani, cui si unirono giovani intellettuali come Emiliano Giancristofaro e Antonino Di Giorgio, che insieme a lui fondarono la sezione abruzzese di Italia Nostra. Il gruppo, tramite l’associazione e la sollevazione dei cittadini di Fossacesia, che si riunirono in comitato, con una dura opposizione riuscì a fermare l’insediamento (la SangroChimica), rivendicando la vocazione agricola e turistica della zona ed il diritto naturale di suoi abitanti a scegliere il tipo di sviluppo della loro terra. Tra l’altro, l’opera doveva essere finanziata da un contributo statale e rischiava di chiudere i battenti se, come evidenziava il Ministro del Bilancio Antonio Giolitti, fosse intervenuta una crisi petrolifera, come puntualmente sarebbe accaduto nel 1975. All’opposizione di Fossacesia si unirono, ben presto, Rocca S. Giovanni, S. Vito, Paglieta e i comuni limitrofi, fatta eccezione per Lanciano. Memorabili, nel culmine della protesta popolare, furono le “lettere aperte” indirizzate da Rosati, tramite il quotidiano “Il Mezzogiorno”, all’Arcivescovo di Chieti, al Ministro della Sanità Remo Gaspari e a quanti altri non respingevano oppure addirittura sostenevano la Sangro Chimica, speranzosi che l’industria inquinante avrebbe portato qualche introito per la zona oppure, più probabilmente, obbedienti alle direttive del Governo, finalizzate all’interesse dei pochi più che ad una programmazione di lungo corso. In seguito, il gruppo riuscì a salvaguardare tramite vincolo monumentale anche l’abbazia che, pur essendo ammirata da studiosi e visitatori, rischiava di venire circondata da edifici panoramici in cemento che alla vendita avrebbero garantito alti profitti: ancora una volta, Rosati si stava battendo per l’interesse della collettività, sostenendo che invece S. Giovanni in Venere doveva restare l’abbazia del silenzio, della pace e della meditazione per tutti; ed ebbe ragione, visto che, per questi requisiti, nei trent’anni successivi il luogo è divenuto una perla dell’Abruzzo turistico. Questi attacchi a beni comuni, come la bellezza del panorama e la pulizia dell’aria e del mare, rappresentavano, agli occhi di Rosati, gravi storture nei ragionamenti degli amministratori locali, volti ad accontentare le istanze degli approfittatori, nella totale disapplicazione dei principi etici nel governo dello Stato: questo affliggeva Rosati, nella cui anima aristocratica viveva l’insegnamento crociano. Il suo malcontento trovò voce in piccoli disegni e collages, estrosi e icastici lampi di genialità psicologica, ritraenti l’uomo nelle sue grandezze (rappresentate da s. Francesco d’Assisi e dalle immagini della maternità), e nelle sue nefandezze, per le quali usò le immagini degli scandali governativi come quello di Giovanni Leone e dei contrasti politici in seno alla Chiesa. Le centinaia di quadretti, donati a parenti e amici, rappresentano cinquant’anni della vita italiana, vista da uno sguardo indipendente e acuto. Negli ultimi anni, aveva cominciato a sistemare la biografia di Gabriele D’annunzio, che aveva ricevuto manoscritta da Filippo De Titta, con la cronistoria dell’amicizia col Vate e la relativa corrispondenza. Ma, aggravatesi le sue condizioni, donò tutto alla “Rivista Abruzzese”. Poi, fece testamento in favore del suo paese, stabilendo la destinazione del palazzo gentilizio a museo o centro di studi storici, nonché la vendita dei quadri che gli erano stati regalati da Michetti al fine istituire una borsa di studio per i giovani più promettenti. E morì, nella sua amata S. Eusanio, il 13 novembre 1978, in poltrona, come il suo amico Benedetto Croce.
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Bibliografia
Beniamino Rosati. La lotta alla Sangro Chimica e i collages, a cura di E. Giancristofaro, Lanciano, Edizioni Rivista Abruzzese, 2003.
Beniamino Rosati. L’ecologia del rimorso (in appendice: L’infanzia e l’adolescenza di Gabriele D’Annunzio nelle memorie di un compagno abruzzese), a cura di E. Giancristofaro, Lanciano, Edizioni Rivista Abruzzese, 1998.