Eide Spedicato Iengo, Effervescenza del “pensiero calcolante” e marginalità di quello “meditante”

Eide Spedicato Iengo, Effervescenza del “pensiero calcolante” e marginalità di quello “meditante”, Rivista Abruzzese, n. 1 2025, pp. 1-7

Nello svaporato tempo del “grande adesso” che irreggimenta in esistenze sempre più omologate, devitalizzate, senza memoria, il vocabolo “tecnica” ha assunto significati salvifici e assoluti quasi costituisse una verità intoccabile. Ovviamente questa affermazione non cela alcuna sua sottovalutazione: in sua assenza la vita sarebbe limitata e impossibile per molti, per i più verosimilmente. Quanto asserito vuole solo allertare sugli esiti cui può condurre la trasformazione della tecnica da strumento nelle mani dell’uomo ad ambiente, scenario, orizzonte esistenziale. Un tale cambio di passo, prodotto dalle regole «di quella razionalità che, misurandosi sui criteri della funzionalità e dell’efficienza non esita a subordinare alle esigenze dell’apparato tecnico le stesse esigenze dell’uomo»[1], non può che produrre cambiamenti epocali sul piano delle abitudini, degli orientamenti, delle prassi, dei costumi, delle relazioni. Si rifletta, ad esempio, sull’onnipervadente artificializzazione dell’ambiente umano; o sulla presenza di inediti dinamismi nello spazio quotidiano che innestano nuovi modi di leggere e abitare la realtà sociale; o sull’indebolimento e, non di rado, sulla cancellazione di interi meccanismi integrativi e corredi valoriali del passato. L’antico convincimento, che assegnava all’etica il compito di scegliere i fini dell’azione umana e alla tecnica il reperimento dei mezzi per la loro realizzazione, è tramontato da tempo: dal giorno in cui il fare tecnico ha assunto come fini quelli che risultano dalle sue operazioni. Il passaggio dall’agire come scelta di fini al fare come produzione di risultati ha rovesciato il rapporto tra l’etica e la tecnica e imbrigliato la prima nello spazio della seconda[2].

Il che non è questione irrilevante: lo spostamento dell’azione umana dall’intenzione ai fini all’attenzione ai mezzi mortifica il significato dell’uomo come ente intenzionale e organizzatore di sé e del senso delle cose; denaturalizza la struttura del rapporto uomo-mondo e, non in subordine, apre la porta sia a un sistema che (pur se all’apparenza prismatico e plurale) in realtà serializza, omologa, addomestica, sia a una minoranza sociale dominante, giudicante e controllante che conferma il declino della democrazia. L’età della tecnica, infatti, sa ospitare solo quella politica “tecnicamente condizionata” che sa muoversi tra funzioni, ambienti, sistemi, ruoli nei quali i soggetti sono interscambiabili quanto fungibili[3]. Il periodo storico che stiamo vivendo registra, dunque, il “punto di non ritorno” di un agire sociale che tende non alla promozione dell’umanità ma alla sua compressione in modelli comportamentali omologati, eterodiretti, colonizzati, guidati dalla mitologia di una modernità «che governa la nostra società in modo sostanzialmente non dissimile da quello in cui la fede negli oracoli governava la società africana degli Azande»[4].

Gli esempi al proposito non mancano: basterebbe pensare alla trasformazione dell’uomo in una sorta di accumulatore di dati molteplici e plurali che non metabolizza e su cui non investe alcuna tessera emotiva; o alla effimerizzazione del rapporto uomo-cose e uomo-uomo; o alla moltiplicazione vorticosa dei bisogni che esigono imperativamente oggetti costantemente sostituibili, prodotti mobili e modulari, beni noleggiati e «merci progettate per una morte quasi istantanea»[5]; o alla logica del presentismo che abitua a vivere in un presente assoluto, disincantato, scarnificato, infecondo, scevro del senso del passato e del futuro. E l’elenco potrebbe continuare. Giovanni Sartori, a proposito del digitalismo e dell’ipermediatizzazione che, precludendo nell’uomo la possibilità di fare esperienze dirette e di prima mano, deformano il suo modo di leggere e sperimentare la realtà, ebbe a precisare: «l’ominide del Pleistocene è già uomo perché dotato di mani prensili a molti usi che lo abiliteranno a diventare homo habilis e homo faber. Paradossalmente, all’uomo di oggi la prensilità non serve quasi più. L’homo prensilis si atrofizza nell’homo digitalis. Nell’età digitale il nostro fare si riduce a premere bottoni su una tastiera. Così viviamo chiusi in una serra senza più nessun vero contatto con la realtà, con il mondo reale. La ‘iper-mediatizzazione’ […] ci priva di esperienze nostre […] e ci lascia in balia di esperienze di seconda mano. Il che è grave di conseguenze. Perché ciascuno di noi capisce davvero soltanto le cose di cui ha esperienza diretta, esperienza personale. Non c’è libro, non c’è discorso, non c’è raffigurazione che possa fare le veci di un nostro ‘battere la testa’. Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua»[6]. Se questo è il quadro in cui ci muoviamo (e in cui verosimilmente continueremo a muoverci) è utopistico pensare che il processo di autodeterminazione possa avere un futuro, a meno che non si produca un qualche vistoso trauma nel sistema.

Dunque, ritenere che i principi organizzativi di una società avanzata sul versante scientifico e tecnologico possano produrre automaticamente incremento di razionalità e di evoluzione sociale è pura ingenuità o, meglio, è un pregiudizio dal quale è d’obbligo guardarsi. Basterebbe riflettere alle silhouette dell’uomo eterodiretto e dell’uomo-massa che hanno stabilizzato i loro profili precisamente all’interno di questa compagine sociale e continuano a godere di buona salute attraverso la presenza di numerosi loro cloni. Penso qui, per esempio, al soggetto zapping, frettoloso, agitato, affetto da bulimia di velocità[7] esponente del tutto e subito o all’assertivo, narcisisticamente ripiegato su sé stesso; ma penso anche al soggetto insipiens che, per dirla ancora con Giovanni Sartori, vive senza il sostegno di una coerente visione del mondo o all’interneticus che padroneggia gli strumenti digitali e si muove a suo agio solo nel mondo immateriale.

Tali modalità espressive -nel promuovere l’infantilismo di massa, l’adultescenza mentale protratta, il dionisiaco scomposto e generalizzato, l’analfabetismo etico, il disincanto politico- danno sostegno e udienza (quantunque attraverso modalità fra loro assai diverse)  a quella lettura del mondo che Zigmunt Bauman ha identificato nella filosofia del “cacciatore”, ossia di colui «che non è minimamente interessato all’equilibrio generale delle cose, sia esso “naturale” oppure progettato e meditato. L’unico compito che i cacciatori perseguono è “uccidere” e continuare a farlo, finché i loro carnieri non sono colmi fino all’orlo. Sicuramente non ritengono loro dovere garantire che la disponibilità di selvaggina nella foresta possa ricostituirsi dopo (e malgrado) la loro caccia. Se i boschi sono rimasti senza selvaggina a seguito di una scorribanda particolarmente proficua, i cacciatori possono spostarsi in un’altra zona relativamente intatta, ancora pullulante di potenziali trofei di caccia. Può darsi che a un certo punto, in un futuro lontano e ancora indefinito, il pianeta rimanga a corto di boschi ancora ricchi di selvaggina; ma se così sarà, loro non lo vedono comunque come un problema immediato (e certamente non come un loro problema). Una prospettiva così remota, dopo tutto, non mette a repentaglio i risultati della caccia in corso, o della prossima, e perciò non obbliga in alcun modo me, singolo cacciatore fra tanti, o noi, singola associazione di cacciatori fra tante, a ragionarci su e tanto meno a fare qualcosa in proposito»[8].

È lapalissiano che un mondo popolato da cacciatori (che peraltro si ritengono parametri di perfezione) non può che tradursi, in tempi più o meno lontani, in un deserto. Chi fa sua questa logica non possiede, infatti, il senso della storia, non conosce il passato, non immagina il futuro, si concentra esclusivamente sul presente e sul proprio egoistico e incolto individualismo, peraltro lontanissimo dall’idea che qualcosa non funzioni. Al profilo del cacciatore andrebbe, pertanto, sostituito quello del giardiniere che, essendo guidato dalla necessità di elaborare un disegno ideale per governare la natura e la realtà, ritiene un suo dovere intervenire per impedire che il disordine prevalga sull’ordine. Ovviamente, il giardiniere per raggiungere questo obiettivo sa di dover necessariamente selezionare e dividere le erbacce (che non si accordano con l’armonia del suo disegno) dalle piante che, invece, vanno curate. C’è pertanto chi sospetta del progetto del giardiniere che apre ad alcuni e vieta ad altri l’ingresso al giardino. Ma per replicare ad una realtà profondamente cinica, violenta, arrogante che allarga a dismisura legioni di sradicati, forme di risentimento, integralismi reattivi, è d’obbligo selezionare per allestire composizioni impensabili e inedite del giardino sociale. Per esempio, se in questo ci si limitasse anche solo a coltivare la nozione di responsabilità morale (che poggia sull’equilibrio tra diritti e doveri) e poi socializzarla e praticarla nei suoi contenuti, non appare inverosimile che, a cascata, assetti sociali più equanimi e virtuosi vedrebbero la luce; le dismisure non avrebbero possibilità di generarsi; incontri alla pari nascerebbero fra diversi; esperienze “altre” offrirebbero ossigeno al pensiero.

Se si riuscisse in questa rivoluzione culturale prima che strutturale, si potrebbe disegnare la mappa di ambienti più ospitali e confortevoli per l’umanità tutta e promuovere lo stadio della modernità riflessiva, la sola pertinente a correggere gli esiti delle azioni che non reggono più le sfide che il mondo globale ha, paradossalmente, rivolto contro sé stesso. Quale, dunque, la strada da imboccare per promuovere nuove, più elevate ricomposizioni sociali? E come saldare equilibratamente i piani del sociale e dell’individuale? Non certo vagheggiando il ritorno ad una società elitaria nelle sue prassi, nei suoi gusti, nelle sue tendenze; né chiudendosi nella nicchia del proprio Io privato esclusivistico ed escludente; né invocando interventi di ingegneria sociale (verosimile anticamera di programmi squallidamente burocratici); né rifiutando la società di cui siamo figli, quanto partecipando alle sue espressioni più civili, seguendo la grammatica comportamentale della società aperta, creativa, progressiva[9].

Per ovviare al rischio di intrappolarsi nella ragnatela delle prassi deteriori e contraddittorie dell’oggi bisogna (bisognerebbe) imparare a praticare, come suggeriva Carl Gustav Jung, l’individuazione, ovvero quel processo di definizione di sé e di maturazione psichica, culturale e sociale che si inscrive in un ideale educativo teso ad adempiere alle finalità collettive dell’uomo[10]. Per ricomporre la società intorno ad un progetto è, quindi, indispensabile ricostruire le coscienze e ripartire dal singolo in quanto individuo politico e sociale. La società in sé non è morale: diventa tale se è fatta da tanti insiemi che si correggono, ed è autenticamente autonoma quando è consapevole della circostanza che non esistono significati garantiti, verità assolute, norme di condotta preordinate. Di qui la necessità di aver chiaro che qualsiasi «livello di sicurezza la democrazia e l’individualità possano acquisire dipende non dal combattere la contingenza e l’incertezza endemiche della condizione umana, ma dal riconoscerle e dall’affrontarne le conseguenze a viso aperto»[11]. Niente, in questo caso, è meno innocente del laissez-faire e dell’apologetica del presente nella sua complessa fenomenologia prescindendo da qualsivoglia sua lettura critica.

Dato, quindi, per scontato che sarebbe inimmaginabile un mondo senza la tecnica e da questa inseparabile la vita dell’uomo (data la sua carenza di dotazioni istintuali e specializzazioni naturali), non altrettanto scontata è la necessità di individuare nuove linee-guida e nuovi paradigmi utili a gestirne il fare. La tecnica, vale ribadirlo, non è neutrale; non è tale perché crea un mondo con caratteristiche specifiche che non si può evitare di abitare. Perciò, a meno che non si voglia rinunciare a considerare noi stessi soggetti della storia, dovremmo iniziare a interrogarci seriamente sul portato culturale dei processi che la tecnica ha innescato, sui cambiamenti che ha prodotto nelle relazioni umane, sulle ricadute conoscitive e linguistiche che ha modificato, sul mondo parallelo a quello reale che sta edificando.

Cosa fare per uscire da questo imbroglio? Senz’altro impegnarsi nel disvelamento delle trappole di cui è disseminato l’accidentato terreno che l’età della tecnica delimita; disporre di vagli critici appropriati a valutare lo spettacolo di inadeguatezza all’epoca che stiamo vivendo; curare il nostro analfabetismo etico e intellettuale; recuperare la capacità di anticipare e di immaginare gli effetti ultimi delle nostre scelte e delle nostre azioni, tenendo peraltro a mente che l’involuzione del pensiero costituisce una prassi reale dell’oggi. Entrare nella rivoluzione più complessa della storia, incespicanti e farfuglianti come bambini o, peggio, ottimisticamente abbandonati alla fede di un’evoluzione comunque ascendente sarebbe pericolosissimo: il progresso e la civiltà sono tutt’altro che «un destino provvidenziale che si compirà nonostante i nostri errori» [12].  Di qui la inderogabilità di promuovere competenze, coerenza, vigilanza, onestà intellettuale, senso di responsabilità, sforzi ragionati e consapevoli.

Riusciremo in questo intento? In teoria sì, se -per dirla con Martin Heidegger- ci si impegna a restituire voce al “pensiero meditante” che sa interrogarsi su ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca dominata dalla tecnica e ridimensionare l’effervescenza di quello calcolante che, all’opposto, ritiene sia da privilegiare solo ciò che è misurabile e contabile[13]. Sta a noi decidere cosa fare. Certo, non sarebbe da compiacersi se alla tecnica fosse consentito di raggiungere «quel punto assolutamente nuovo nella storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più: ‘Che cosa possiamo fare noi con la tecnica’, ma: ‘Che cosa la tecnica può fare di noi’»[14].

 

[1] U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 457.

[2] Idem, p.455.

[3] A. Toffler, Lo choc del futuro, Rizzoli, Milano,1972, p.79.

[4] F. Cassano, Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo, il Mulino, Bologna, 2002, p. 7.

[5] U. Galimberti, Le rivoluzioni dell’homo videns, in “La Repubblica”, 21 febbraio 2000.

[6] G. Sartori, Homo videns, Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 100-101.

[7] R. Franchini, D. Guidi, Supermarket Paradiso. Viaggio tra i giovani dell’Emilia rossa, Ediesse, Roma, 1995, p.12

[8] Z. Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 114.

[9] R. Cantoni, Illusione e pregiudizio, Il Saggiatore, Milano, 1967, p. 262.

[10] Saper valorizzare le proprie originali possibilità all’interno delle norme sociali, non disperdere le proprie energie, dare un senso alla propria esistenza, orientare il proprio fare per rivitalizzare i confini del vivere civile, significa contribuire al miglioramento dello spazio sociale in cui si vive e, parallelamente, attivare più evolute ed equilibrate coesioni collettive.

[11] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002, p.252.

[12] R. Cantoni, Illusione e pregiudizio, op. cit. p. 170.

[13] M. Heidegger, L’abbandono, il Melangolo, Genova, 2004. Si tratta del testo di una conferenza tenuta da Heidegger nel lontano 1955.

[14] U. Galimberti, Psiche e techne, op.cit. p. 715.

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