Memoria, musei, storie di vita, differenze e patrimonio immateriale nelle risposte di Pietro Clemente[1] a Maria Rosaria La Morgia.
Professor Clemente, prendendo la parola nel Convegno Nazionale di Simbdea (Società italiana per la Museografia e i Beni demoetnoantropologici) a Chieti il 22 novembre 2019, lei si è interrogato sul rapporto passato/presente affermando la necessità di una memoria forte per recuperare esperienze e saperi, insomma per imparare e non per rimpiangere. Si tratta di una questione che continua a provocare molte divisioni tra chi vive di nostalgia mitizzando un mondo perduto e chi lo nega in nome della modernità. È possibile superare questa dicotomia e che contributo può arrivare dall’antropologia culturale?
Questa dicotomia è più evidente negli anni della grande trasformazione, ma oggi torna ad accentuarsi per via della crisi e dei disagi vissuti. E mentre era normale negli anni ‘60, oggi è assurda e paradossale. Anche l’antropologia oscilla tra un approccio che combatte le identità portatrici di essenzialismo e di chiusura, e un approccio che vede, nel ritrovare tratti di identità locali rinnovate, una nuova energia per uno sviluppo diverso.
Nessuno parla più di nostalgia, ma per lo più di retroproiezione, di creatività nuove ispirate a tematiche e saperi antichi. Gli studi e i progetti dei territorialisti, quelli della Strategia Nazionale per le aree Interne, discutono su come rivitalizzare le aree abbandonate, sul recupero dei saperi, delle coltivazioni, delle forme dell’edilizia, ma in prospettive nuove. Non è solo l’antropologia, ma anche l’antropologia a cercare questa via di mezzo fortemente innovativa. Il volume Riabitare l’Italia (Donzelli 2018) è costituito da 30 saggi di 40 autori provenienti da vari campi disciplinari in dialogo tra loro. Il tema comune è quello di costruire una nuova civiltà a partire dalle zone interne abbandonate, dai paesaggi fragili. È anche l’idea di un ritorno, ma non al folklore e alla nostalgia di un mondo scomparso, di un mondo ricco di esperienza ma anche autoritario e in parte chiuso, bensì al cuore storico dell’Italia, dove la sua specificità si è articolata nei secoli, dove sia possibile ricostruire un equilibrio tra terra, acque, boschi e produrre per un nuovo mercato con un nuovo rapporto tra zone interne e città. Una utopia che ha un’aria assai concreta. È utile ripensare anche alla storia dello sviluppo, che in genere abbiamo visto in modo deterministico, come l’ inevitabile prevalere della modernità, dell’edilizia moderna, della socialità urbana. Oggi si può immaginare quante occasioni di nuovo radicamento e di lavoro ci sarebbero state se non fossero tutti fuggiti da montagne e colline impervie. E quanto meno sarebbe stato squilibrato il territorio. Comunque, almeno da 30 anni c’è una nuova attenzione verso le zone interne. La cultura passata è una risorsa per riabitare l’Italia, ma va reinventata e adeguata alle esigenze di oggi.
Tra i suoi maestri c’è uno dei padri dell’antropologia culturale italiana, Alberto Maria Cirese. In che modo la lezione dell’autore di Culture egemoniche e subalterne l’ha formata e quanto del pensiero ciresiano è ancora attuale?
Si discute ancora molto di Cirese, soprattutto nel mondo dei suoi allievi e eredi. Cirese ci aveva abituato, come metodo, a discutere e ad essere critici anche verso di lui. «Amicus Plato sed magis amica veritas» diceva sempre. La sua eredità è quella di una demo-etno-antropologia italianistica, quella che ci dà le risorse conoscitive per occuparci di patrimonio culturale, di cultura popolare, di musei, ma anche per stare dentro e interpretare i processi di cambiamento e modernizzazione. Una delle critiche fatte a Cirese – anche tra i suoi allievi – è quella di una interpretazione statica del rapporto tra classi egemoni e classi subalterne, come se le classi subalterne fossero quelle premoderne (contadini, artigiani, pescatori, come venivano definiti nel passato), e quindi di non avere portato l’approccio metodologico gramsciano al confronto con la contemporaneità e la società di massa. A mio avviso questo non era un limite del suo metodo, ma piuttosto degli studi condotti da noi allievi. Va ricordato infatti che negli ultimi anni Cirese si è occupato soprattutto di applicazioni informatiche e di uso della logica e dell’astrazione all’antropologia culturale. Negli anni ‘70 i temi della crisi della società contadina, dello sviluppo capitalistico e del consumismo avevano un certo rilievo anche politico e spesso i nostri studi finivano per avere piuttosto un carattere di storia sociale, anche se vista come guida alla comprensione del processo capitalistico dello sviluppo. In un certo senso non venne dato molto spazio di ricerca alle culture popolari contemporanee, pur facendo ricerche sul territorio e dentro la vita di tutti i giorni. In qualche modo lavoravamo soprattutto sulla memoria della trasformazione. Oggi abbiamo un approccio diverso.
Dagli anni ‘70 a oggi, come è cambiata la figura dell’antropologo? Oggi si può parlare di “professione”?
Da quando mi sono laureato in filosofia nel 1969 (in ritardo di anni per via del grande impegno nella politica), i cambiamenti nell’Università sono stati enormi. Allora la sociologia, la psicologia e l’antropologia culturale stavano tutte nelle Facoltà di Lettere, poi le discipline sociali sorelle sono cresciute e hanno fatto Facoltà per proprio conto, mentre l’antropologia è rimasta un po’ al palo. Ma sono cambiate le generazioni, i temi di riferimento, c’è una nuova cultura internazionale tra i giovani. Ma sempre con pochi investimenti pubblici per la ricerca e quasi nulli per la ricerca applicata. Il nostro Paese è purtroppo agli ultimi posti in Europa per la ricerca. Sul piano della professionalità abbiamo fatto piccoli passi in avanti, ma la crisi delle attività culturali degli Enti Locali è stata assai negativa. Ha portato a chiudere musei, iniziative, progetti. Abbiamo pochi Direttori di museo professionali, pochi operatori dei beni DEA nelle istituzioni, pochi anche nel campo delle ONG che operano nel Terzo Mondo, dell’ONU e della FAO. Negli anni ‘70 l’antropologia era più ideologica e politicizzata, fortemente legata alle grandi correnti del marxismo e dello strutturalismo, ma poco esperta di altri mondi, di dialoghi universitari con l’Europa, gli USA, l’Africa e l’Asia. Quel poco che c’era nasceva da dentro l’etnologia coloniale. Oggi ci sono diversi docenti italiani di antropologia in altri Paesi. In Italia siamo sempre troppo pochi e la nostra società non si è aperta a questa disciplina e neppure l’accademia, dove le scelte corporative ne impediscono la crescita. Gli studi italiani dialogano con quelli di altri Paesi. Ma nell’insieme c’è una certa sofferenza disciplinare, data anche dalla forte presenza di giovani con formazione di alto livello che restano fuori da équipe, da occasioni di ricerca territoriale, dalle professioni e dalle Università. L’unico fatto nuovo è un concorso nazionale che ha portato una ventina di antropologi nel Ministero dei Beni culturali e nelle Soprintendenze, grazie al consolidarsi delle Scuole di specializzazione in Beni DEA e del titolo specifico che rilasciano. Si tratta di un evento importante, ma c’è ancora tanto da fare.
Nel suo lavoro sul campo lei ha dato molto spazio alle “storie di vita”, tante voci che, messe insieme, ci restituiscono una comunità, un paese, un mondo. Che narrazione ne esce fuori?
È difficile dare una risposta univoca. Personalmente ho lavorato molto sulla mezzadria, sul mondo contadino toscano. Ma l’idea guida vale anche per altre zone e culture. Se lavori con le storie di vita non ci sono dei modellini normativi che ti dicono cosa è una cultura, ma hai percorsi nel tempo, relazioni sociali, regole sociali e scarti individuali da esse, insomma processi complessi. Lavorare, ad esempio, sui temi delle zone interne mi ha consentito di rivalutare i saperi contadini che ho studiato, e che pensavo appartenessero solo al passato. La cosa certa è che, ovunque io abbia lavorato con fonti orali e storie di vita, ho avuto rappresentazioni impreviste del mondo. In genere la società viene pensata dentro semplificazioni che non aiutano a vedere la particolarità e le differenze legate alle diversità dei territori. Sono oggi interessato a capire le trasformazioni delle ultime generazioni, come la comparsa del voto di destra e leghista nei luoghi storici del mondo contadino comunista della Toscana. Spero che su questi temi di antropologia politica, legata anche all’uso delle storie, si muovano anche le nuove generazioni. A questo proposito voglio citare Antonio Fanelli, molisano, mio allievo fiorentino, studioso dell’opera di Cirese, che ha già scritto due cose significative in questo senso: un libro sulle Case del Popolo a Firenze e una storia di vita di un dirigente comunista bolognese1.
Lei è presidente onorario di Simbdea, un’associazione che sta lavorando molto per la valorizzazione e la messa a sistema dei musei demoetnoantropologici. Nel nostro Paese sono molto numerosi, ma non tutti riescono a “parlare” alla contemporaneità. Alcuni sono diventati depositi polverosi incapaci di dialogare con il territorio per il venir meno di energie culturali ed economiche. Quale può essere la strada per farli vivere e renderli presidî culturali di riferimento?
I nostri musei, fragili, con direttori per lo più legati ad associazioni locali o a singoli collezionisti, anche se pieni di grandi meriti per avere salvato memoria e patrimonio delle culture del territorio, sono in grandissima difficoltà. Non sono all’ordine del giorno delle politiche culturali regionali o nazionali, né dei sindaci. Ho chiamato questo fenomeno ‘tradimento dei sindaci’, visto il frequente orientamento a lasciare perdere i musei locali per dare spazio a iniziative mirate solo alla visibilità e alla spettacolarità. Ma i sindaci non sono più quelli del passato che spesso venivano dal lavoro dei campi, dal sindacalismo, dalla politica ed avevano una idea della dignità e del valore del lavoro. Oggi sono spesso giovani ignari, nati nel mondo dei media, che spesso vedono i musei DEA come “roba vecchia e ingombrante”. Un direttore di Museo DEA della provincia di Lecco ha definito autocriticamente come “musei del buon ricordo” l’immagine prevalente dei musei DEA, musei che invece volevano proporre una storia sociale di alto profilo e utile al presente.
Tutta la museografia sente queste difficoltà, non solo la nostra. Da qualche anno, e già dalla Carta di Siena, ICOM ed altre associazioni museali, tra cui SIMBDEA, lavorano ad una idea del museo come presidio attivo del territorio, estendendo un po’ a tutti i musei lo spirito che fu dell’idea di ecomuseo di Hugues De Varine. L’idea è di mettere in sicurezza e rendere visitabili le collezioni e di dedicarsi alla iniziativa pubblica su temi difficili del presente come ecologia, abbandono, migrazioni, sviluppo sostenibile. Ma per lo più i nostri musei non hanno staff professionali e quindi questa idea è affidata o alla volontà dei singoli operatori o a un nuovo movimento dei musei che per ora si fa attendere.
Da quando sono in pensione mi occupo di piccoli paesi a rischio tracollo demografico, e di ‘zone interne’. Da questa angolazione, si vede bene che i musei potrebbero essere “scatole nere” di antichi saperi e di rapporti con il territorio, utili a riabitarlo nel presente. Quando a Siena nel 2010 lanciammo l’anno dei mezzadri, ci rendemmo conto che non potevamo più proporre la storia importante delle loro lotte, della partecipazione alla Resistenza, della nuova coscienza sociale. Questa (per me sacrosanta) epica storico-sociale, che aveva rappresentato la mia “poetica e politica” museografica degli anni ‘70, sembrava non avere più un valore. Però, a generazioni ormai lontane dalla vergogna di avere avuto dei padri e dei nonni contadini, anzi ora disponibili a vedere i nonni come “diversità culturale”, era possibile mostrare i tratti delle gestione contadina del territorio come esperienze e risorse utili per il presente, dal kilometro zero allo smaltimento integrale dei rifiuti, ai cibi consumati secondo le stagioni, alla cura idrogeologica del territorio, al dialogo campo-bosco, allevamento-agricoltura. Esempi di equilibrio che non servono a dire “fai come loro”, ma a mostrare quel tesoro di saperi e di memorie come possibile per nuove agricolture contadine e per produzioni agroalimentari qualitative. Come risposta ai dissesti e ai disastri dell’Appennino. In questi scenari i musei hanno una funzione nuova, che via via viene scoperta. Dove ci sono ritorni alle zone interne, i musei hanno una nuova funzione di servizio. Si oscilla tra un ritorno a tutto campo del museo nelle battaglie delle politiche culturali e sociali e una sua funzione di dispositivo dal quale prelevare saperi utili a nuovo sviluppo. La battaglia fatta dai territorialisti (in particolare penso a Alberto Magnaghi e al tema della coscienza di luogo2) per una idea di futuro che passi dal riabitare l’Italia delle zone interne, dà un nuovo spirito guida ai musei DEA. A onor del vero devo dire che ci sono esperienze locali di musei che tengono e svolgono un ruolo. Sono spesso musei che hanno una componente di gestione privata o operativa, e che hanno saputo reagire in modo più duttile alla crisi. Tra questi, mi fa piacere segnalare il Museo delle Genti d’Abruzzo di Pescara.
Dal 2007 l’Italia ha ratificato la Convenzione Internazionale per la salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, eppure c’è ancora una certa diffidenza nei confronti del sapere demoetnoantropologico come strumento di mediazione con le comunità. Segnali positivi ci arrivano da quanto sta accadendo a Cocullo, dove si sta costruendo un percorso partecipato di candidatura del culto di San Domenico Abate e del rito dei serpari?
Nel 2007 feci parte della Commissione che il Ministro Rutelli istituì per una buona gestione italiana della Convenzione sul patrimonio immateriale istituita nel 2003. Ricordo con piacere quel tentativo di gestione, fatto dall’alto ma in modo collaborativo e intelligente, che fu però travolto dalla elezioni politiche e dall’arrivo al MIBACT di Sandro Bondi. La Commissione ebbe problemi con la comunità degli antropologi, diffidente verso tutto ciò che veniva dal mondo istituzionale, e internamente ricca di controversie. È stato ed è ancora difficile fare accettare che la Convenzione suggerisca un modello di ricerca diverso, basato sulla comunità, la partecipazione, l’empowerment, e non sul singolo ricercatore che si fa difensore e interprete della comunità. Figura, questa, importante ancora in molti contesti, ma che deve riuscire ad aprirsi al difficile dialogo con i sindaci, gli assessori e le comunità patrimoniali, che deve fare ricerche mirate ai dossier di candidatura e di valorizzazione da parte di Soprintendenze, Regioni, Unesco. Una buona antropologia applicata in questi contesti non è ancora in atto. Prevale uno sguardo di critica politica che attribuisce tutte le colpe al terribile “neoliberismo”, concetto a mio avviso improprio e che non serve molto a operare nei contesti locali. I saggi importanti di Dino Palumbo nel volume L’Unesco e il campanile (Meltemi 2006), che restano utilissimi a comprendere le dinamiche locali delle comunità, sono stati letti come se il campanilismo e i conflitti locali fossero prodotti dall’Unesco, e non fossero invece tratti propri delle realtà locali italiane. Mi pare di vedere nei giovani antropologi “critici” una ripetizione del dogmatismo della mia generazione. Critiche politiche ed etiche generali assai forti, ma accompagnate dal disagio nel leggere le società locali in modo non aprioristicamente già definito. Spesso si cita Gramsci, ma letto in realtà contro Gramsci, visto che egli fu quello che introdusse nel marxismo le nozioni di società civile, di articolazione, di egemonia. Posso dirlo con coscienza di causa, anche perché l’ho vissuto nei tempi lunghi di chi ha studiato e fatto politica dagli anni ‘60 e ci sono passato dentro. Il progetto “Unesco” di salvaguardia urgente per la festa di San Domenico e dei serpari a Cocullo è un caso importante, grazie soprattutto all’équipe di Simbdea che ci ha lavorato, con lento, faticoso ascolto del mondo locale, dialogo con le istituzioni, paziente ricucitura di aspettative e delusioni, in una realtà complicata, drammaticamente colpita dall’esodo e dalla disoccupazione. Ci sono alcune realtà italiane sia di riconoscimento avvenuto (l’Opera dei Pupi e il dialogo con il Museo delle Marionette di Palermo), sia di iscrizione nelle liste del REIL (Registro delle Eredità Immateriali) in Lombardia, sia di richiesta di riconoscimento in rete (Il Tocatì di Verona, proposta dalla Associazione Giochi Antichi) ed altre esperienze che danno l’idea che anche in Italia si sta creando un universo di comunità patrimoniali consapevoli e di antropologia applicata alla valorizzazione delle realtà locali. Intanto è sempre importante restare aggiornati sulle iniziative dell’Unesco, sulle crisi e le critiche, sulle innovazioni che avvengono negli incontri dei comitati internazionali. Lia Giancristofaro sta pubblicando un testo su un evento nuovo: la cancellazione di un elemento già riconosciuto (il carnevale di Aalst in Belgio) a causa dei forti tratti di antisemitismo che lo hanno caratterizzato in alcune edizioni. Un caso nuovo e interessante da conoscere. Simbdea ha la fortuna di avere resoconti e collaborazioni stabili da Valentina Zingari, che è formatrice Unesco, e segue, anche per noi, i Comitati internazionali. È un mondo da scoprire, sia leggendo le liste dei riconoscimenti ICH on line, sia la letteratura internazionale che ne discute, sia i comitati e le normative. Non è un caso che l’Unesco, così criticata da visioni un po’ semplificatorie dell’antropologia, sia forse l’unico organismo internazionale che ha accolto la Palestina, sfidando una rottura con Israele e USA. Abbiamo bisogno di seguire contesti internazionali complessi e dinamici anche per collocarci in questo difficilissimo mondo in guerra. Va ricordato che l’Unesco e il suo lavoro sul patrimonio nasce dalla seconda guerra mondiale, dal tentativo di far sì che le guerre non distruggano i patrimoni delle civiltà. Va ricordato anche che la tematica dell’Immateriale è stata sollecitata dai Paesi asiatici per opporre al mondo dei manufatti architettonici dell’Europa il mondo dei saperi pratici dell’Oriente. Qualcuno dice che l’ONU e l’Unesco non servono a niente. Il fatto che siano deboli non toglie che siano tra le principali risorse per costruire la pace e il dialogo delle culture create nel Novecento contro le guerre.
Che contributo può dare l’antropologia culturale alla costruzione di una società che sappia vivere nelle differenze e valorizzarle anziché demonizzarle?
In teoria sarebbe facile rispondere. Le società che ci sono passate per prime, dagli Usa al Canada, all’Australia, al Regno Unito, alla Francia, hanno una grande esperienza e un grande dibattito sul multiculturalismo, sul transculturalismo e quant’altro. Da noi l’antropologia è davvero poco ascoltata, manca come voce nei media, nella stampa. Non c’è racconto delle pratiche migratorie, degli incontri locali di cultura che si muovono in modo ricco e articolato. Nell’immagine pubblica non c’è differenza tra nordafricani, africani del centro nord, subsahariani, tra siriani e irakeni, tra pakistani e filippini, ma è chiaro che sono diversi, testimoniano tante culture, tanti approcci religiosi. Per noi sono solo “neri” o scuri, un rapporto elementare come era negli anni delle lotte contro il razzismo negli Usa: bianchi contro neri. Senza la presenza capillare della Chiesa i ritardi del nostro sistema di accoglienza peggiorerebbero ancora la situazione. La semi-abolizione degli SPRAR da parte di Salvini, l’attacco politico contro il caso Riace, hanno fatto tornare indietro esperienze importanti di trasformazione delle realtà locali grazie all’innesto dei migranti. Gli antropologi sono sempre impegnati nella battaglia contro il razzismo, a favore di una immigrazione che costruisca risorse per una nuova società italiana, ma è sempre più difficile far entrare nella coscienza comune le esperienze dei nostri studi, il racconto delle diversità culturali, gastronomiche, di stili di vita. Non siamo chiamati a dire la nostra opinione, non siamo ascoltati. Oggi, raro caso, mi fa piacere trovare su “La Lettura” del 12 gennaio un testo di Adriano Favole, che è una delle poche voci pubbliche del nostro mondo, dedicato a Essere ospitali. Un legame debole rafforza le società. Favole cerca di rappresentare il tema dell’ospitalità in altre culture. È un testo prezioso che prende spunto da un volume, Integrating strangers in societies (12 saggi sull’ospitalità in altre culture), a cura di J. Platenkamp, e A. Schneider. Uno dei modi di capire la pluralità, di imparare dalle esperienze; inoltre, sul blog di un altro antropologo, Piero Vereni, nello stesso giorno, è apparsa una proposta di discussione critica su come sulla stampa viene usato il concetto di cultura, travisandolo completamente3. Forse c’è una intensificazione della consapevolezza di essere ignorati. Se la politica si ponesse il problema, l’antropologia sarebbe utilissima. Invece anche la sinistra lo vive sulla difensiva, senza saperi e conoscenze né controinformazioni.
Prevale una semplificazione brutale e la menzogna sistematica (è assurdo che si possa credere a un ministro che dice di avere difeso i confini dell’Italia impedendo di attraccare a una nave che portava un centinaio di disperati). Negli ultimi anni del mio insegnamento a Firenze, avevo notato con dispiacere che anche i giovani, messi davanti ai drammi del contesto migratorio, tendevano a elaborare una reazione di indifferenza (come a dire: non tocca a noi occuparci di questi problemi). Gli antropologi culturali possono fare molto, e non solo loro, raccontando le esperienze di incontro, raccontando le culture di riferimento, le storie nazionali di tanti uomini e donne cui non viene riconosciuta una storia. Il lavoro fatto a Roma da Sandro Triulzi con l’Archivio delle memorie migranti4 e dall’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, con la nascita di DIMMI5, è punto di riferimento importante. Non è solo l’antropologia, ma la società civile consapevole del valore delle differenze a essere in campo. Sono stato assai positivamente colpito da come alcuni musei di arte hanno saputo includere dei migranti come mediatori culturali, portatori di una idea dell’arte come spazio della narrazione, proprio nei luoghi che appaiono più elitari, trasformando così anche la visione dell’arte6.
Note
1 Antonio Fanelli, A casa del popolo, Antropologia e storia dell’associazionismo ricreativo, Donzelli, 2014; Antonio Fanelli, Carlen l’orologiaio. Vita di Gian Carlo Negretti: la Resistenza, il Pci e l’artigianato in Emilia Romagna, Il Mulino, 2019; 2 http://www.societadeiterritorialisti.it/, segnalo anche il libro Becattini G., 2015 La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Roma, Donzelli, che contiene un dialogo tra l’urbanista Magnaghi e l’economista Giacomo Becattini sul valore della memoria e della esperienza degli insediamenti umani e della costruzione del paesaggio come risorsa per un futuro diverso, una risposta all’idea opaca e maniacale di “crescita” che ormai accomuna tutti. Già dalla nascita della Strategia Nazionale Aree Interne, nel 2015, Fabrizio Barca ha parlato di “sviluppo mirato ai luoghi”; 3 http://pierovereni.blogspot.com/2020/01/luso-pubblico-dellantropologia-ernesto.html, Nasce da una critica a uno scritto di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera del 10 gennaio, e a un uso etnocentrico ed errato del concetto antropologico di cultura; 4 http://www.archiviomemoriemigranti.net/it/; 5 Diari Multimediali Migranti, http://archiviodiari.org/index.php/iniziative-e-progetti/dimmi.html; 6 S. Bodo, S. Mascheroni, M. G. Panigada, (a cura di), Un patrimonio di storie. La narrazione nei musei, una risorsa per la cittadinanza culturale, Mimesis, Milano, 2016, ma anche l’esperienza della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, per quel che conosco, spero ci siano tante esperienze simili in Italia.
[1] Già professore ordinario nelle Università di Siena e Roma “La Sapienza”, si è occupato di cultura contadina, tradizione orale, emigrazione, museografia demoetnoantropologica. Nel 2018 gli è stato conferito il Premio internazionale per gli studi demo-etno-antropologici “Giuseppe Cocchiara”.