Riconoscimento unesco e marketing territoriale.
L’abruzzo e il suo “capitale nascosto” visti dall’expertise.
Il presente saggio consegna alcuni risultati empirici dell’esplorazione qualitativa (osservazione partecipante) di un campo di significati nel contesto regionale abruzzese: tradizioni, crisi, economia, turismo, riconoscimento UNESCO, sviluppo. Come ogni ricerca etnografica, questo resoconto è influenzato dalla condizione della sottoscritta, antropologa nativa; dalla condivisione di specifiche convenzioni e decifrabilità espressive “regionali”; dall’obiettivo finale della ricerca, che è di individuare sinergie e dinamiche partecipative (bottom to up) rivolte all’autostima, alla civilizzazione e allo sviluppo culturale regionale, prima ancora che economico. Parallelamente, è stata condotta una osservazione di altri contesti italiani attivi nella patrimonializzazione UNESCO (Lombardia, Alto-Adige)[1]. L’osservazione è partita nel 2009: all’indomani del sisma che ha colpito il Capoluogo e che in Abruzzo ha anticipato l’onda d’urto della crisi economica globale, il flusso della comunicazione pubblica ha cominciato a indicare la necessità di riconsiderare a fini turistici e commerciali il “capitale nascosto” dell’Abruzzo, ovvero i suoi “giacimenti culturali”: tradizioni, gastronomia, monumenti, opere d’arte e bellezze paesaggistiche che, essendo inimitabili, rappresentano il principale vantaggio competitivo nel panorama globale. Nel giro di alcuni anni, l’aspirazione ad ottenere il “bollino UNESCO” si è diffusa come una sorta di contagio. Per esempio, dalle cronache dei giornali regionali si apprende che a Bucchianico «la Festa dei Banderesi diventa manifestazione patrocinata dall’UNESCO» e che «dopo i riconoscimenti di Provincia e Regione, questo evento di carattere storico-religioso che affonda le radici nel XIII secolo ha conquistato un altro importante traguardo: il marchio dell’UNESCO»[2]. Inoltre, a Chieti opera una Commissione del Consiglio Comunale appositamente finalizzata al riconoscimento della processione del Venerdì Santo come Patrimonio dell’UNESCO, con un recente aumento di interesse da parte della cittadinanza: «Tenuto conto che la città dell’Aquila con la sua Perdonanza Celestiniana ambisce a tale riconoscimento (…) e che lo stesso rappresenterebbe un importante volano per il turismo della città di Chieti la quale ha, proprio nella Processione del Venerdì Santo, la più sentita e partecipata manifestazione del proprio calendario annuale, si chiede di apprendere lo stato dell’arte relativo all’iter di riconoscimento da parte dell’UNESCO»[3]. Che la cittadinanza di Bucchianico desideri amplificare il prestigio della sua tradizione folklorica è comprensibile, come pure è evidente che la cittadinanza teatina, sull’onda della domanda di iscrizione “singola” presentata dall’Aquila nel 2010 – e purtroppo non ancora andata a buon fine – voglia ribadire il suo prestigio e sostenere un particolare aspetto della sua cultura orale che realizza un “patrimonio intangibile”, immateriale o volatile che dir si voglia, ovvero la sua particolare processione del Venerdì Santo. Però, dal punto di vista dell’expertise, questa “biopolitica patrimoniale” scaturita dalla crisi post-sismica è una maniera per elaborare la perdita patrimoniale dell’Aquila e per garantire il futuro in momenti in cui tutto sembra cadere a pezzi. E affidarsi a un’idea di valorizzazione del patrimonio culturale intangibile che sia separata dall’esperienza delle persone rischia di seguire la strada propagandistica di “garantire un risultato” solo nell’immaginazione. Collocando il bene culturale intangibile, ovvero la tradizione, in un utopistico e mediatico tempo senza storia, esso viene privato delle sue basi sociali e reso più fragile. Le tradizioni, infatti, vivono nella quotidianità del presente, nelle relazioni tra le persone. Il valore storico irriducibile è connesso tanto ai beni culturali immateriali, appunto le tradizioni, quanto in quelli materiali, ambientali e paesaggistici che, insieme, formano il patrimonio culturale e che, per il loro particolare rilievo storico ed estetico, costituiscono la ricchezza di un luogo e della relativa popolazione, dunque hanno interesse pubblico. Certamente non è peregrina l’idea di un chiedere l’iscrizione nella lista UNESCO di alcuni aspetti del patrimonio culturale intangibile abruzzese. Secondo l’United Nations World Tourism Organization (da cui l’acronimo UNWTO) l’attenzione per il patrimonio culturale è in crescita ed entro il 2020 il volume turistico triplicherà, dirigendo il suo interesse soprattutto verso la scoperta e la partecipazione di forme di vita originali e alternative. Tuttavia il turismo di massa, accrescendo il fatturato degli alberghi, dei trasporti, della ristorazione e del commercio, inevitabilmente stravolgerebbe gli ambienti che non avessero precedentemente valutato e pianificato la sostenibilità di un’alta concentrazione di visitatori. Come afferma l’expertise, “i monumenti sono abitati”[4], cioè le persone del luogo patrimonializzano il loro “bene culturale” secondo una stratificazione di usi, costumi ed emozioni, sviluppando tattiche di proprietà o, in senso opposto, atteggiamenti di resistenza e ironia. Nel corso del tempo, le forme di vita vengono riclassificate e nel corso di una generazione possono passare dalla condizione di “vergogna nazionale” a quella di monumento esemplare. Si pensi ai Sassi di Matera o ai Trulli di Puglia: il mutamento progressivo del loro senso (da espressione di miseria a espressione patrimoniale) è la conseguenza del disallineamento di poteri e significati tra la popolazione locale, le egemonie locali e l’expertise la quale, operando nella direzione dello “sbilanciamento”, svolge una funzione pioneristica e di impulso al cambiamento. Quando una forma di vita locale diviene “monumento nazionale e internazionale”, nel suo micro-contesto entrano in scena nuovi fruitori, nuovi protagonisti, nuove performances, nuove relazioni, nuovi insediamenti e nuove conflittualità (si pensi alle speculazioni urbanistiche e alle pressioni politiche). In questo flusso, i professionisti del patrimonio culturale – ovvero l’expertise – stimolano il rinnovamento e le operazioni di mediazione e ricollocamento (tra locale e globale) del bene materiale, ambientale, paesaggistico o, appunto, “intangibile”. I beni non materiali, già di per sé molto delicati, vanno sempre contestualizzati nel sistema culturale nel quale vivono, che oggi per giunta è così glocale e complesso, così fluido e variabile, da evidenziare ulteriormente la particolare “natura” di questa “cultura”, ovvero la particolare fragilità delle tradizioni popolari[5]. I saperi, le credenze, i modi di vivere e di pensare, non possono essere mummificati in nome della salvaguardia, né riprodotti in modo passivo e stereotipato. Analizziamo, per esempio, il Rituale di Cocullo: nella moderna idea di tradizione come processo culturale, il suo essere un “patrimonio intangibile” va individuato non in “ciò che è fedele al passato” (prospettiva che rischierebbe di trasformare il Rituale in uno sterile rifacimento con aspirazioni di autenticità), ma in qualcosa che può essere riconosciuto solo adottando la nozione di “stile” quale chiave di identificazione dei modi di produzione e consumo del bene[6]. La tradizione non è un ipotetico prolungamento del passato nel presente; dunque l’individuazione, inventariazione e salvaguardia del Rituale di Cocullo non può disconoscere tutti quei partecipanti che si armano di macchina fotografica quale strumento popolare contemporaneo individuato per “condividere il sacro”. Le tradizioni popolari sono una forma di cultura e questo rinnovamento della partecipazione a Cocullo gioca una funzione intrinseca nel disallineamento di poteri e significati tra la popolazione locale, le egemonie politiche, i media e l’expertise. Il senso da dare alla tutela e della valorizzazione dei Beni Culturali Immateriali è estremamente dibattuto e, in tal senso, le teorie demo-etno-antropologiche italiane, assieme a quelle francesi, sono all’avanguardia. L’United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization (da cui l’acronimo UNESCO) si pone da decenni l’obiettivo di salvaguardare i capolavori tradizionali per evitarne la scomparsa. Perciò, così come era già stato fatto per tutelare i beni culturali, nel 2003 è stata stipulata la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale con annessa lista mondiale rappresentativa. Attualmente l’elenco comprende centinaia di patrimoni immateriali di tutto il mondo, tra cui solo cinque patrimoni italiani: l’Opera dei Pupi siciliani (iscritta nel 2001), il Canto a tenore della cultura pastorale sarda (2005), la Dieta mediterranea (2010), l’Artigianato tradizionale del violino a Cremona (2012), e infine la Rete delle grandi macchine a spalla (2013), che associa le città di Viterbo, Nola, Palmi e Sassari. L’inserimento di queste tradizioni nella lista dei Patrimoni Orali e Immateriali dell’Umanità ha avuto ricadute socio-economiche, ma di qualità e durata variabile. Che il pedaggio da pagare al turismo di massa possa diventare oneroso in termini di frizioni, conflittualità e degrado ambientale è un dettaglio forse sfuggente per la comunicazione pubblica regionale, ma non per l’UNESCO, che per questo ha da tempo modificato le condizioni d’iscrizione alla lista secondo questa direzione: ogni anno, ciascun Paese può avanzare non più di due candidature (una per i beni culturali e l’altra per quelli paesaggistici), e deve garantire la sostenibilità socio-ambientale delle sue proposte. Preparare il dossier di candidatura, inoltre, comporta un gran lavoro da parte dei portatori d’interesse, nonché investimenti per svariate migliaia di euro a carico di chi, a livello locale, propone la candidatura. Per giunta l’iscrizione, una volta ottenuta, va mantenuta, cosicché il record italiano di oltre quaranta realtà culturali e paesaggistiche “certificate” dall’UNESCO – nessuna delle quali è in Abruzzo – rischia di decrescere. Infatti, i controlli sui beni inseriti nella lista sono settennali, ma dietro segnalazioni e denunce possono arrivare ispezioni e si può essere espulsi o declassati, finendo ad esempio nelle liste speciali delle realtà pregevoli che però si trovano “in condizione di pericolo” a causa del disinteresse della popolazione locale (emersione di indifferenza, corruzione o conflittualità intorno al bene, abusivismo edilizio, inquinamento ambientale, perdita o distruzione del bene o di parte di esso). L’UNESCO e la relativa Commissione italiana non possiedono strumenti finanziari (le pratiche di candidatura avvengono tramite il MiBACT, che fa da interfaccia tra le comunità di eredità e l’UNESCO), dunque la vigilanza sulla corretta tutela e valorizzazione spetta al comune in cui si trova la realtà culturale che è stata riconosciuta pregevole. Insomma, l’iscrizione nella lista UNESCO rientra in una dimensione immaginaria e di per sé non sufficiente ad attirare turismo e investimenti; anzi, in determinate condizioni essa può registrare effetti controproducenti[7]. Pur presentando il vantaggio di un’immagine civilizzata e internazionale, essa alimenta aspettative che, in quanto tali, possono rivelarsi effimere o concrete a seconda della maggiore o minore coesione della comunità culturale, delle professionalità messe in gioco e del progetto di marketing territoriale che sottende all’intera iniziativa. Per evitare campanilismi, conflittualità ed effetti boomerang, l’expertise politica, giuridica ed etno-antropologica che lavora all’applicazione della Convenzione UNESCO del 2003 ha implementato, nell’ambito delle candidature, il senso e il ruolo delle “comunità di eredità”, il quale era già stato formalizzato nella Convenzione Europea di Faro (2005), sicché la verifica dell’effettivo valore che l’eredità culturale offre alla sua società (in sintesi, le ricadute sociali) è stata progressivamente rafforzata fino a condizionare… l’iscrizione stessa. Scendere in questo dettaglio sarà senz’altro utile per il lettore desideroso di approfondire tale tematica. La Convenzione di Faro, ratificata dall’Italia nel gennaio del 2013, muove dal concetto che la conoscenza e l’uso dell’eredità culturale rientrano fra i diritti dell’individuo a prendere parte alla vita culturale della comunità e a godere liberamente delle sue arti popolari[8]; dunque la Convenzione di Faro, integrando gli altri strumenti internazionali esistenti, chiama le popolazioni a svolgere un ruolo attivo nel riconoscimento dei valori dell’eredità culturale, e invita gli Stati a promuovere un processo di valorizzazione partecipativo e democratico, fondato sulla sinergia fra pubbliche istituzioni, cittadini privati, associazioni[9]. La tutela dell’heritage, secondo le nuove direttive UNESCO, si traduce dunque nella salvaguardia consapevole di un reticolo narrativo che è intessuto di migliaia di microcosmi e che assomiglia più a un intricato quartiere che alla strada a senso unico del bollino UNESCO da esibire come “fiore all’occhiello”, la quale viene giustamente scoraggiata dalla stessa organizzazione internazionale[10], con effetti prospettici che possiamo sintetizzare nel seguente quadro.
Visioni pubbliche attualmente diffuse sul territorio abruzzese | Direttive diffuse dai Comitati Intergovernativi UNESCO nel corso degli ultimi dieci anni |
In cosa consiste l’iscrizione di un Bene Culturale Immaterialenella lista dei Capolavori dell’Umanità? | |
Iscrizione individuale del singolo bene culturale intangibile | Iscrizione di rete di un sistema di beni culturali su base associativa |
Premio istituzionale concesso dall’alto verso il basso (up to bottom) | Forma di autotutela dichiarata dal basso verso l’alto (bottom to up) |
Iscrizione come segno di prestigio campanilistico e forte richiamo turistico-economico | Scelta di vita comunitaria intesa come salvaguardia di valori socio-culturali locali |
Nel prolungarsi della crisi economica, le istituzioni locali rischiano di approcciare gli strumenti politici della salvaguardia in modo riduttivo perché, in mancanza di programmazione territoriale e di “buone pratiche”, l’idea di richiedere una serie di iscrizioni nella lista UNESCO al fine di sollevare l’economia potrebbe tradursi in una ulteriore deriva o crescita illusoria. Per esempio, ci sarebbe il rischio di individuare l’heritage sulla base di criteri non relazionali e creativi, bensì assolutistici, conservativi ed etnocentrici. Sulla base di una comparazione qualitativa e quantitativa trentennale (1984-2014), i dati socioeconomici denunciano che, rispetto ad altre regioni italiane del Centro-Nord, le famiglie e le comunità hanno perso coesione; che l’indice medio dell’istruzione e delle competenze creative non cresce e da questo consegue la diminuzione della competitività economica; che aumentano l’alcolismo e le dipendenze; che le aspirazioni, le interazioni e i bisogni vengono affidati al mero calcolo, all’irrazionalità, al pregiudizio, all’aggressività, producendo ulteriori fratture e disuguaglianze socioculturali[11]. Restando nel livello della generalizzazione, l’emersione giudiziaria di azioni scorrette da parte del ceto dirigente ha scardinato lo status quo e ha lasciato fluire il dramma delle pulsioni, dei desideri repressi, delle ipocrisie di una cultura politica illusa di risolvere i propri conflitti attraverso transazioni non risolutive, tattiche temporanee, galleggiamenti utilitaristici e a corto raggio. Purtroppo, questa società nell’ultimo decennio ha teso a gestire in modo patriarcale e auto-referenziale il benessere “ereditato”, cioè ha disincentivato il talento e gli elementi favorevoli al progresso culturale, tecnologico ed economico, ivi compresa la tutela dei beni culturali e del paesaggio. Insomma il ceto dirigente ha dirottato le risorse verso le proprie “rendite di posizione” anziché rivolgerle verso usi produttivi come il rinnovamento del “capitale umano”; in tal modo, si sono creati vincoli socio-istituzionali che attualmente realizzano il “marketing territoriale” al rovescio[12]. Va qui specificato che il marketing territoriale è non certo una promozione pubblicitaria, bensì l’elaborazione di una strategia che garantisca lo sviluppo di un comprensorio nel lungo periodo , ovvero un’attività di concertazione moderna e complessa resa necessaria dalla competizione tra territori globali. Per la sua esecutività serve un’expertise attrezzata a competere in situazioni difficili e abile nel costruire reti di comunicazione, mediazione, gestione, reperimento di finanziamenti. Anche in Abruzzo opera la nuova generazione dei lavoratori della conoscenza che, nel presente saggio, indichiamo come expertise: ma si tratta di una professionalità che rischia la marginalizzazione e l’espulsione (la cosiddetta fuga dei cervelli). Tra le risorse abruzzesi in perdita, dunque, c’è il capitale umano, che sarebbe il principale fattore di attrazione territoriale nei confronti del capitale “finanziario”. Nel presente quadro sinottico, sul lato sinistro ho sintetizzato una serie di “valori indicativi” che nelle quattro cornici attraverso le quali si distribuisce il flusso culturale contemporaneo (istituzioni, mercato, vita quotidiana, movimenti) tendono a prevalere sui valori indicati sul lato destro, i quali, secondo l’ottica democratica e partecipativa proposta dall’UNESCO e dal Consiglio d’Europa, sarebbero più flessibili, positivi e vincenti[13]. Ovviamente, tale contrapposizione soffre del noto e discutibile dualismo ermeneutico occidentale, ma può risultare utile come espressione empirica.
Prevalenza di elementi culturali nelle comunicazioni pubbliche provenienti da: | |
Ambito politico istituzionale ed egemonico | Ambito pioneristico dell’expertise |
Identità culturale ed etnica | Creatività interculturale |
Esacerbazione del copyright e delle rendite di posizione | Cultura del dono, della generosità sociale e della libera circolazione delle idee |
Interpretazione statica delle tradizioni | Interpretazione dinamica delle tradizioni |
Purezza culturale del bene | Porosità della performance del bene |
Individuazione delle forme autentiche del bene | Individuazione degli stili culturali del bene |
Attualmente, sarebbe dunque opportuno correggere questo modo di procedere dualistico, che realizza iniziative frammentarie e dispersive tanto nell’ambito istituzionale della salvaguardia, quanto nell’ambito pioneristico dell’expertise. E sarebbe opportuno aprire un dialogo tra due dimensioni che sembrano così contrapposte, con l’effetto di creare innovazione, porosità, scambi di vedute. L’Ente più lacunoso, in tal senso, è la Regione, a cui sarebbe spettato il compito di mettere l’expertise in sinergia con l’ambito istituzionale, dando vita ad una organica programmazione territoriale. Oggi, nella miriade di leggi regionali del Settore Cultura, troviamo assistenza, tutela e sostegno (spesso tradotto in finanziamento) a manifestazioni di ogni tipo; norme in materia di promozione culturale, di Musei di Enti locali o di interesse locale; ma in materia di Patrimonio Culturale Intangibile non troviamo nulla, nonostante l’obbligo di ottemperare alla disciplina internazionale e nazionale, a seguito della ratifica italiana della Convenzione UNESCO e della Convenzione di Faro, cada in capo agli Enti Territoriali[14]. E mentre altre regioni si sono da anni attivate nella direzione del marketing territoriale e della governance nel campo dell’heritage, in Abruzzo dobbiamo accontentarci delle “buone pratiche”. È infatti su questa base che il Consiglio Regionale d’Abruzzo il 22 gennaio 2013 ha riconosciuto la rappresentatività culturale di un singolo elemento di heritage con una legge che concede al piccolo paese di Cocullo un contributo annuale per la gestione e per la salvaguardia del suo patrimonio culturale festivo, in quanto esso rappresenta un interesse non più paesano e comprensoriale, ma regionale[15]. Pur apprezzando la presenza di questo piccolo e iniziale intervento di salvaguardia da parte del Consiglio Regionale, va segnalata la necessità di procedere con una legislazione che metta in primo piano le competenze nel campo del patrimonio culturale immateriale e che regolamenti una volta per tutte questo settore così delicato. Nelle more di un’auspicata – e comunque tardiva – legge regionale di Salvaguardia del Patrimonio Culturale Intangibile, gli stake holders di Cocullo (Pro Loco, Pubblica Amministrazione, Associazione Culturale, Centro Studi) continuano a concertare l’implementazione delle loro “buone pratiche di tutela e progettualità dal basso” in sinergia con l’expertise demo-etno-antropologica, che così sperimenta un definitivo superamento della documentazione etnografica classica ed elabora metodologie partecipative più idonee, sostenibili e accessibili per le nuove sensibilità culturali. Per esempio, dalle ultime vicende di questa “comunità di eredità”, è emerso che per i diretti interessati la candidatura UNESCO non è centrale; semmai, la piccola comunità appenninica si dichiara disponibile a sperimentare metodi di ricerca collaborativa nella prospettiva di un inventario partecipativo e “in rete” con altre comunità devozionali appenniniche o addirittura mediterranee. Contrariamente alle realtà che centralizzano l’elemento campanilistico e festivo in senso stretto, a Cocullo è dunque in atto un work in progress sulle volontà e gli orientamenti locali, per i quali una eventuale candidatura rimane secondaria rispetto all’autotutela del loro contesto culturale specifico. Tra queste argomentazioni teoriche e pratiche sulla tutela dei “patrimoni intangibili”, c’è un aspetto che risulta forse più “popolare” e accessibile per la cittadinanza abruzzese, perché è intrecciato alla storia e alla vita delle circa trecento comunità (di paese, contrada, congrega, associazione o quartiere) che ogni giorno si attivano nella salvaguardia dell’heritage regionale: parliamo ovviamente delle Pro Loco, associazioni locali finalizzate alla promozione e allo sviluppo del territorio. Si tratta di strutture decentrate di volontariato, non di rado trainate da figure carismatiche, attualmente coordinate nelle forme di una unione nazionale (UNPLI) che, nel rispetto dell’autonomia individuale delle singole Pro Loco, cerca di realizzare una forma di marketing del territorio nazionale attraverso una programmazione comune. Grazie proprio al suo essere una “rete democratica e partecipativa”, l’UNPLI è stata accredita nel giugno 2012 presso il Comitato intergovernativo UNESCO per la salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale previsto dalla Convenzione del 2003, diventando di diritto una ONG attiva nei processi di salvaguardia e, dimostrando di avere vertici lungimiranti, non ha esitato a coinvolgere l’expertise demo-etno-antropologica nazionale nei suoi progetti di individuazione, documentazione e salvaguardia dei saperi popolari. In conclusione, la critica intellettuale, per essere credibile, efficace e dotata di prospettiva, deve necessariamente saldarsi alla capacità di formulare proposte concrete e attuabili in dialogo con le istituzioni e la cittadinanza. In tal senso, essere propositivi è la maggiore responsabilità che attende l’expertise regionale nel campo dell’heritage, e di questo la Pubblica Amministrazione sarà obbligata a tenere conto. L’Abruzzo ha urgente bisogno di una normativa regionale sul Patrimonio Intangibile che sia calzata su misura e che metta in primo piano la sostenibilità e le ricadute sociali della salvaguardia; dunque, non un rozzo “copia e incolla” dalle normative delle regioni che già si sono messe in regola, ma la ponderata “messa a sistema” di iniziative frammentarie e dispersive che oggi faticano il proprio compimento e rischiano di ingenerare illusioni e frustrazioni presso una cittadinanza regionale che nell’ultima decade è stata fin troppo provata. Una simile legislazione dovrebbe davvero “fare la differenza” perché l’Abruzzo non patisca più il ritardo, la disorganizzazione e la disuguaglianza rispetto a regioni italiane più attive nel campo dell’heritage e nel relativo found-raising europeo, il quale rappresenta l’unico elemento di vantaggio economico per i territori che, con o senza il bollino UNESCO, hanno finora tutelato o il loro Patrimonio Culturale Intangibile e, attraverso una sorta di rinnovamento del “patto sociale”, si impegnano a proseguire il loro percorso di civilizzazione e rispetto. La salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale è una battaglia di metodi, di obiettivi, di confronti, di cambiamento, di capacità di tenere insieme livelli diversi creando “strutture di dialogo” che mettano in relazione esperienze e bisogni diversi. In tutta evidenza, questo lavoro di tutela UNESCO del Patrimonio Culturale Immateriale non si riduce all’individuazione, alla catalogazione e alla “marchiatura” di un elemento tradizionale, per prestigioso e irriducibile che esso sia. Investire sul Patrimonio Culturale significa investire sulla cultura, sull’auto-stima, sul turismo sostenibile. In tal senso, i migliori operatori potrebbero individuarsi nelle Pro Loco decise ad orientare il loro volontariato in progetti di “valorizzazione territoriale” condotti in dialogo con l’expertise. Utili spunti di comparazione interregionale e internazionale saranno oggetto di ulteriori saggi per la Rivista Abruzzese.
Lia Giancristofaro
The UNESCO acknowledgement missing a territorial marketing. Abruzzo and its “hidden capital” seen by the expertise. Key words: cultural assets, UNESCO, earthquake, economy, culture, heritage, development, sustainability.
[1] La comparazione con gli altri contesti regionali qui è stata eliminata per motivi di spazio; ne daremo conto in saggi successivi.
[2] Il Centro, 23 marzo 2011.
[3] Il Centro, 8 febbraio 2014; Cityrumors, 8 febbraio 2014.
[4] Daniel Fabre, Anna Iuso, Les monuments sont habités, Paris, Maison des Sciences de l’Homme, 2010, pp. 25-26.
[5] Antonio Arantes, Heritage as culture. Limits, Uses and Implications of Intangible Cultural Heritage Inventories, in Intangible Cultural Heritage and Intellectual Property, a cura di Toshi Kono, Cambridge, Intersentia, 2009.
[6] Alberto Mario Cirese, Beni volatili, stili, musei, Roma, Ori, 2007.
[7] Berardino Palumbo, Le alterne fortune di un immaginario patrimoniale, «Antropologia Museale», X, 1, 2011.
[8] Tale diritto è sancito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Parigi 1948) e garantito dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Parigi 1966).
[9] L’art. 2 della Convenzione di Faro spiega che le “comunità di eredità” sono costituite da persone che attribuiscono valore a degli aspetti specifici dell’eredità culturale, che desiderano, nell’ambito di un’azione pubblica, sostenere e trasmettere alle generazioni future.
[10] La letteratura internazionale da tempo sollecita cautele in tal senso. Cfr. per esempio Pietro Clemente, Oltre il folklore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea, Roma, Carocci, 2001; Hugues de Varine, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, Bologna, Clueb, 2005; Antonio Arantes, Limits, Uses and Implications of Intangible Cultural Heritage Inventories, in Intangible Cultural Heritage and Intellectual property, New York, Intersentia, 2009; Antonio Arantes, Beyond Tradition: Cultural Mediation in the Safeguarding of ICH, in Anthropological Perspectives on Intangible Cultural Heritage, Springer, New York, 2013.
[11] Cfr. per esempio Mario Santucci, Per l’Abruzzo. Appunti e spunti di riflessione socio-economica, L’Aquila, CRESA, 2011; Giulia Paola Di Nicola, Eide Spedicato Iengo, Gli adolescenti e la famiglia ieri e oggi. VIII indagine sociologica sugli adolescenti abruzzesi, Colonnella, Marte, 2011; Eide Spedicato Iengo, Il falso successo del mondo “liquido”. Intorno a nomadismi culturali e patti sociali traballanti, Bari, Laterza, 2012.
[12] Emanuele Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Bologna, Il Mulino, 2014.
[13] Anthony Giddens, Runaway World, Profile, London, tr. it. Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, il Mulino, Bologna, 1999..
[14] Un ulteriore strumento può ravvisarsi nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (2004), che attribuisce al Ministero per i Beni e le Attività Culturali il compito di tutelare, conservare e valorizzare il patrimonio culturale materiale e immateriale dell’Italia. Recenti modifiche della Codice hanno rinforzato la professionalità degli interventi operativi di tutela, protezione, conservazione, valorizzazione e fruizione dei beni culturali tramite l’istituzione di elenchi nazionali di archeologi, archivisti, bibliotecari, demo-etno-antropologi, restauratori e storici dell’arte presso il MiBACT. Oggi, tuttavia, la riorganizzazione dei ministeri ha trasferito le competenze sull’arte e l’architettura contemporanea, l’immateriale e la tutela delle diversità culturali alla… Direzione Generale dello Spettacolo, con una politica che sembra rientrare in una visione che tende alla “spettacolarizzazione” delle tradizioni e aggrava l’assurda frattura tra i “beni culturali” e la loro “vita sociale”, visto che i compiti di studio, educazione e promozione faranno ancora capo alla Direzione dalla quale dipendono i musei demoetnoantropologici.
[15] Di questa iniziativa normativa abbiamo già reso conto nell’articolo Sulla salvaguardia del patrimonio culturale intangibile. Il rituale di Cocullo in una legge regionale, “Rivista Abruzzese”, LXVI (2013), 1, 42-45.